REPORTAGE: I fiori del Rwanda

Nella mia agenda, piccolina, che ormai abita nel mio zaino, è conservato il tesoro che mi sono portata dall’Africa. L’agenda l’avevo comprata poco prima di partire per il Rwanda, apposta per quel viaggio, per quella avventura lavorativa di cui ignoravo la maggior parte dei contorni.

Stavo tornando da una giornata passata con la mia famiglia in montagna, un sabato pomeriggio di fine settembre dello scorso anno, quando ricevo una telefonata da una collega. Nella telefonata, del tutto inusuale vista l’ora e il giorno, la collega mi dice che Melinda, la nostra (ex) formatrice, aveva bisogno di un/a partner che sapesse il francese per realizzare con lei una formazione in psicodramma in Rwanda in dicembre. Melinda lavora in Rwanda e in Burundi da diversi anni e conosce la situazione ormai piuttosto bene. La formazione era già tutta organizzata, prevedeva due formatori, ma all’ultimo una delle due ha rinunciato all’incarico. Quindi entro la mattina del giorno dopo avrei dovuto dare una risposta. Nel giro di poco ho dovuto decidere, pensare alla fattibilità, confrontarmi con mio marito eccetera eccetera ma di fatto sono girate poche parole. La spinta principale è stata: “Ma quando mi ricapita un’occasione del genere?”. Così la mia risposta è stata affermativa.

Nel giro di pochi giorni è stato predisposto tutto per la partenza: biglietto aereo, vaccinazioni, passaporto. Nel frattempo con Melinda, la mia (prima formatrice, ora) collega ungherese, preparavamo il lavoro. Lei è neuropsichiatra infantile, con diversi anni di esperienza in Africa, io sono psicoterapeuta, italiana. Da qualche anno, con i colleghi di Torino, utilizziamo con i bambini un metodo di lavoro di gruppo che ci ha appassionato (lo psicodramma infantile adleriano ideato da Hanna Kende). Ed era questa l’avventura lavorativa: formare operatori dell’infanzia (psicologi, assistenti sociali, insegnanti, educatori) locali all’utilizzo di questo strumento che, avevamo visto nella nostra attività clinica, si era dimostrato così potente nel trasformare, in meglio, la vita dei bambini.

Siamo andate in Rwanda per due volte, per circa due settimane ogni volta, la prima a dicembre e la seconda a luglio di quest’anno e il lavoro è stato veramente ben riuscito, oltre che “matto e disperatissimo” (nel senso che si iniziava presto e si finiva tardi, praticamente tutti i giorni, con gran coinvolgimento personale e lavoro “ricamato su misura”).

Così ho visto con i miei occhi un paese di cui avevo sentito parlare diversi anni prima, associato al genocidio del 1994, e poi basta. L’Africa mi interessava, mi incuriosiva, mi attraeva ma fino a quel momento solo da lontano perché andare in Africa, anche solo per turismo, richiede molto impegno, se non altro economico e di tempo (per lo meno come sarebbe piaciuto fare a me, cioè escludendo villaggi turistici e offerte last minute). In effetti non c’ero mai stata. Ho scoperto che non a tutti interessa spendere un poco della propria vita per conoscere l’Africa (qualcuno mi ha detto: “a me non interesserebbe proprio un’esperienza là, preferisco altri posti”). Ho scoperto che per qualcuno “avrei dovuto ringraziare mio marito per avermi permesso di partire perché non tutti lo avrebbero fatto”. Ho anche scoperto che Kigali, la capitale del Rwuanda, ha la temperatura del paradiso (il mio ideale paradiso): minima 14-18 gradi, massima 24-30 gradi, tutto l’anno, ed essendo situata a 1500 metri di altezza, ha clima mite e asciutto tutto l’anno (salvo periodi un po’ più umidi nella stagione delle piogge). Non ha il mare ma ha le montagne dei gorilla, visitabili solo dai nababbi perché gli accessi sono contingentati per proteggere i delicati ecosistemi dei gorilla e quindi il prezzo di accesso è esorbitante. Ha delle riserve naturali dove gli animali della savana vivono liberi. Ma, tornando agli umani, è un paese politicamente stabilizzato e ha anche il maggior numero al mondo di deputate donna in parlamento. E, ancora, niente mutilazioni genitali femminili.

Il mio lavoro mi ha dato un punto di osservazione molto interessante. Io guardavo il paese e il mondo attraverso gli occhi dei bambini perché è di loro che ci stavamo occupando indirettamente Melinda ed io con il nostro lavoro di formazione agli adulti. L’obiettivo era fornire agli adulti uno strumento efficace per “conoscere” lo stato di salute mentale dei bambini e per aiutare i bambini in condizione di sofferenza. Così ho realizzato quanti sono i bambini in condizione di abbandono da parte delle famiglie (per questioni legate all’estrema povertà, al fatto che spesso i padri rimasti vedovi si risposano e i figli della moglie morta diventano un problema di cui si occupano gli istituti e ancora, i bambini sono soli per questioni legate alla salute dei genitori o al loro imprigionamento).

Il governo di Paul Kagame ha da poco deciso che tutti i bambini devono poter essere reintegrati nella comunità/famiglia di appartenenza e le varie istituzioni stanno lavorando in questa direzione.

A questo riguardo il nostro lavoro ci ha permesso di sentire, gridato come i bambini potevano fare, coi disegni e con le loro storie inventate, che ci sono dei tempi dei bambini che vanno assecondati, dei modi che vanno rispettati, delle verità che vanno svelate e dei dolori che vanno condivisi e supportati prima di poter rimettere a posto le cose.

Sono tornata con la sensazione che il Rwanda sia un paese che ha tutte le intenzioni di rimettere a posto le cose, dopo l’esperienza del genocidio del ’94. L’impressione è che sia un paese che ha voglia di emanciparsi: a Kigali, la città “delle 1000 colline”, il centro è pieno di grandi palazzi e di luci, di aiuole curatissime, di larghe strade e semafori con la temporizzazione a vista (ci sono dei numeri che dicono quanti secondi ancora si avranno di verde, di giallo e di rosso), il verde pubblico è curato da decine e decine di operai per la strada. L’economia, oltre che sul turismo ambientale, punta sui servizi terziari e sul divenire centro di riferimento per l’Africa per gli incontri e i congressi internazionali. Per le strade girano tantissimi fuoristrada (spesso di ong o enti multinazionali) ma anche tantissime persone a piedi. Kigali è una città dove una donna può camminare tranquillamente per strada, anche di sera. E, con poche eccezioni, se hai bisogno trovi sempre qualcuno, sorridente, che è disposto a darti una mano.

E’ un paese che vuole cambiare, forse occidentalizzarsi, in fretta. Da dicembre a luglio si vedevano già le differenze: cambiavano le strade che venivano allargate, spianate, asfaltate. Cambiava il sistema dei trasporti dei pullman dove non si trovavano quasi più gli addetti ai biglietti sopra l’autobus perché ognuno doveva essere munito di una tessera da obliterare sul mezzo. Nel giro di due soli giorni l’intero paese è stato allestito per promuovere l’elezione del già capo del governo Paul Kagame: festoni bianchi rossi e blu ovunque e manifesti. In effetti il 3 agosto Kagame è stato rieletto.

Kagame è protagonista della storia del Rwanda da diversi anni. Ha guidato i ribelli che nel luglio del 1994 sono riusciti a fermare il genocidio e da allora è presente sulla scena politica. Da subito in Rwanda si è lavorato per la riconciliazione e per la convivenza (impegno che non ha impedito però totalmente che si verificassero ritorsioni di diverse fazioni negli anni successivi).

Una cosa che sapevo (e che continuo a pensare anche dopo questo viaggio) è che la generazione degli adulti e dei giovani adulti che io ho incontrato nel mio lavoro è una generazione portatrice di un trauma importante. Tutti, più o meno direttamente, sono stati coinvolti nel massacro ruandese e oggi, quegli stessi adulti, sono chiamati a far crescere i loro piccoli.

Ce la può fare una comunità di adulti che hanno dovuto prendere atto di essere sopravvissuti a tragedie insostenibili ed esperienze squassanti e che nonostante devono continuare a vivere, ad accompagnare i piccoli di oggi a diventare grandi? Ce la possono fare questi adulti ad aiutare i bambini a costruire se stessi in modo armonico, in modo sano? Ce la possono fare quegli adulti e quei giovani che si sono assunti il ruolo di educatori o di insegnanti o di operatori della salute, fisica o psicologica, a sostenere un ruolo così impegnativo, tenuto conto che essi stessi sono portatori di una importante sofferenza, più o meno consapevole?

Io ritengo di sì. Si può fare. Ci stanno lavorando. E la nostra formazione intendeva rinforzare gli strumenti per realizzare questo impegno.

Ma anche lì, in Rwanda, esattamente come a casa mia, per poter essere adulti capaci di far crescere bene le nuove generazioni occorre rimanere vigili su un aspetto particolarmente delicato: la consapevolezza di essere fragili, di essere feriti, di essere portatori di un dolore così grande da doverlo nascondere in profondità perché altrimenti impedirebbe alla vita di andare avanti.

Succede spesso, purtroppo, di dover diventare grandi nonostante grandi ferite. E non si va molto lontano se non si ha la forza, il coraggio, la possibilità, la pazienza di raccogliere e ascoltare questa parte di sé.

I rwandesi si portano dentro, non solo come singoli ma come comunità intera, una enorme ferita che deve non solo essere incerottata e coperta, oppure celebrata, ma vista fino in fondo, curata, fatta cicatrizzare. Allora potrà non essere più da ostacolo alle nuove generazioni.

E quando ce le hai davanti, le nuove generazioni, rimani a bocca aperta. Possono avere delle belle divise scolastiche o vestiti sporchi e strappati, possono avere una famiglia o essere ospitati in istituti per bambini o ancora essere “bambini di strada”, possono avere poca acqua fredda per lavarsi e nessun bagno in casa, un bidone giallo da portare a mano per la scorta di acqua potabile o tante altre situazioni ancora ma certamente sono in ascolto delle tante risposte possibili da parte degli adulti che li circondano.

Le domande che i bambini fanno ai grandi sono sempre le stesse, da sempre, in ogni luogo e ciascun adulto è chiamato in causa. E allora cosa diamo ai nostri bambini? Cosa trasmettiamo di noi, del mondo, del futuro possibile?

Il Rwanda sta cambiando in fretta ma i tempi dei bambini sono diversi, non sono sempre veloci. L’ho sperimentato per l’ennesima volta, una mattina del fine settimana, quando ero con la mia collega sul lago  Kigufi dove avevamo scelto di passare il tempo della correzione delle tesi dei formandi. Quel lago è un posto incantevole, silenzioso, poco frequentato: solo qualche suora, qualche pescatore, poche donne e qualche bambino dei piccoli sobborghi che sorgono sulle rive. Alcuni bambini, maschietti, in lontananza giocavano nell’acqua. Da un’altra parte (pare che maschi e femmine giochino separatamente) una bambina che avrà avuto cinque anni si bagna in acqua, gioca un po’ con un'altra un po’ più grande, di circa dieci-undici anni direi. Da una quindicina di metri di distanza la piccola si volta spesso verso di noi, le uniche due bianche presenti sulla riva. Poi esce dall’acqua e si siede sulla sabbia. Aspetta. Poi recupera un’altra piccolina (avrà meno di un anno, non cammina) e con lei in braccio si siede un po’ più vicina a noi. Ci guarda. Lascia passare un po’ di tempo e si avvicina ancora un po’. Il movimento continua fino ad avere la possibilità di incrociare gli sguardi e i sorrisi un po’ più direttamente. Rispondiamo al sorriso, lei dice “muzu”, bianco, in ruandese. Loro parlano solo ruandese, noi non abbiamo nulla con noi, quello che possiamo scambiare sono solo sorrisi e tempo. Lei con la piccolina in braccio si accomoda, seduta su un piccolo scoglio, a circa quattro metri dai nostri teli stesi a terra. Le raggiunge la “grande”. Si siede lì e non dice niente; rimbrotta solo qualcosa quando la piccola insiste a chiamare. Poi una novità. La piccola allunga una mano. Melinda mi dice che vuole toccare perché probabilmente non ha mai visto bianchi da vicino. Allungo la mano e mi lascio toccare. Lei sfiora la mano e poi annusa. Evidentemente gli odori sono diversi, non ci avevo pensato; un altro modo per conoscersi! Sorride, ridono. Le altre due non fanno nulla (una è troppo grande, seria e responsabile, l’altra è troppo piccola). Dopo un altro po’ succede che lascia la piccolina alla grande e si alza. Va a cercare qualcosa nei dintorni. Si avvicina e torna con dei fiorellini. Arriva davanti a noi e li porge a Melinda e a me. Sorride. Sorridiamo. Cerca ancora qualcosa da darci ma trova solo foglioline. Ce le offre comunque. La ragazzina con in braccio la piccolina si alza e cerca anche lei qualcosa. Trova un fiorellino e lo mette in mano alla più piccolina perché ce lo offra. Allora è la piccolina, in braccio alla “sorella grande” che ce lo sporge, sorridendo. Melinda si ricorda di avere dei biscotti in casa così ci lascia per un po’ per tornare con qualcosa di buono per le bimbe. Nel frattempo vedono il telefono, chiedono una foto. Così faccio loro una foto (lo avrei fatto già da un po’ se non avessi avuto la sensazione di fare qualcosa di fuori luogo). Melinda arriva e mostra i biscotti alle donne che sono in lontananza, tra le quali probabilmente c’era la mamma; le donne annuiscono avendo capito cosa sta succedendo e che i movimenti delle bambine non erano considerati molesti (pare che tendenzialmente le mamme non lascino che i bimbi si avvicinino ai bianchi). Le bambine accettano i biscotti, li assaggiano e poi li mettono via; ringraziano a modo loro, con larghi sorrisi a noi e risatine pudiche tra di loro. Dai primi movimenti di avvicinamento delle bambine sono passate due ore. Due ore! Per noi è tempo di rientrare e di finire il lavoro che dovevamo fare. Così salutiamo le bambine, le mamme in lontananza e torniamo alle nostre case.

Quei fiorellini e quelle foglie sono conservati nel mio quaderno, preziosi come la più bella poesia che potessi leggere. Un incontro così delicato e struggente non mi era mai capitato. Peccato che ho fatto una sola foto e che c’era talmente tanta luce che non sono riuscita a rendermi conto che non era venuta un granché. Oggi quando guardo la foto so che non rende giustizia alla bellezza delle tre bambine, alla grazia che avevano dentro e che ci hanno regalato.

Non so se le parole del reportage rendono giustizia a questo; forse è un testo che non è venuto un granché, proprio come la foto che ho fatto, ma quelle bambine, quei bambini, tutti i bambini andavano visti, non solo da noi due ma da tanti, da tutti.

 

Moncalieri, 15 settembre 2017

Stefania Giampaoli